Fonte: Il manifesto
Di Franco Corleone
14.12.2011
Il Tribunale di Cagliari ha assolto M. S. dall’imputazione di spaccio (per 38 grammi di marijuana) e di coltivazione di sei piantine di cannabis. Il Pm aveva chiesto un anno e quattro mesi di carcere e duemila euro di multa
Dopo la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari, che ha assolto due fratelli condannati per coltivazione domestica di canapa ad uso personale (il manifesto, 16/11), il Tribunale di Cagliari ha assolto M. S. dall’imputazione di spaccio (per la detenzione di 38 grammi di marijuana) e di coltivazione di sei piantine di cannabis. Il Pubblico ministero aveva chiesto la condanna a un anno e quattro mesi di reclusione e a duemila euro di multa, con l’attenuante dell’ipotesi di “lieve entità” (comma 5 dell’art.73 della legge). Lo svolgimento del processo, con rito direttissimo e con l’imputato in carcere in misura cautelare, offre uno spaccato della vita di un soggetto marginale.
L’imputato di 33 anni, disoccupato, con un disturbo bipolare certificato dalla Clinica psichiatrica dell’Università di Cagliari dichiara di essere tossicodipendente, in cura presso il servizio pubblico con assunzione quotidiana di metadone.
Dice anche di fare uso, quasi quotidianamente, di spinelli che prepara con le foglie triturate delle piantine da lui coltivate. L’arresto è stato conseguente ad una perquisizione personale e domiciliare che ha portato al rinvenimento delle sei piante alte tra i 73 e i 170 centimetri “in vari gradi di infiorescenza”. Il giudice unico dott. Carlo Renoldi ha innanzitutto affrontato il problema della detenzione della marijuana. La nuova legge sulla droga del 2006 non ha introdotto un’inversione dell’onere della prova – argomenta il giudice – dunque sta all’accusa provare che la droga rinvenuta sia destinata ad uso “non esclusivamente personale”.
Nel caso specifico, lo spaccio non può essere dedotto dal semplice dato ponderale e di conseguenza l’imputato viene assolto dall’accusa. Per quanto riguarda la coltivazione delle piantine, il giudice ha dovuto tener conto di diversi e contrastanti pronunciamenti. Da un lato, la sentenza della Corte Costituzionale n.360 del 1995 e diverse sentenze della Cassazione che, pur configurando la coltivazione come reato, distinguono però tra coltivazione industriale e coltivazione domestica: tale è quella destinata ad uso personale per un quantitativo non apprezzabile di sostanza, tale da non mettere in gioco il bene giuridico protetto della salute pubblica. La coltivazione domestica è in sostanza equiparabile alla detenzione (ad uso personale), che non è considerato reato penale.
Dall’altro, c’è la pronuncia stravagante delle Sezioni unite della Cassazione del 2008 che afferma il principio della punibilità della coltivazione per qualsiasi uso e in qualsiasi quantità. Nel caso esaminato sarebbe stato difficile sostenere che l’azione dell’imputato ponesse in pericolo «la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni», secondo la ridondante prosa delle Sezioni Unite della Cassazione.
Questo è stato anche il convincimento del dott. Renoldi, che ha assolto M.S. con queste argomentazioni: la coltivazione domestica lungi dall’incrementare le occasioni di spaccio, «sarebbe semmai idonea ad erodere dall’interno la richiesta di stupefacente sul mercato, senza finanziare l’attività della criminalità organizzata e in quel modo contribuire a rafforzarla». La giurisprudenza sta facendo la sua parte, è ora che anche la politica si adegui.
(Dossier su coltivazione domestica su www.fuoriluogo.it)