Sentenza Cucchi: licenza di uccidere.
di Marco Rigamo
1 / 11 / 2014
A dicembre del 2012 fu resa nota la super perizia disposta dalla Corte di Assise di Roma per accertare le cause del decesso di Stefano Cucchi, 31 anni per 37 chilogrammi di peso, avvenuto il 15 ottobre del 2009. Le conclusioni dei sei professori dell’istituto Lebanof di Milano furono per l’attribuzione della colpa ai medici ospedalieri, che avrebbero sottovalutato la carenza di cibo e liquidi e il suo grave stato di malnutrizione.
In 190 pagine fu costruita la struttura d’appoggio per la sentenza di primo grado, destabilizzando la relazione tra morte e pestaggio. Suggerendo una caduta quale origine delle lesioni, affermando che “non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che l’altra dinamica lesiva”. Imperizia, negligenza, superficialità: una condotta meramente “colposa”. A processo tre agenti della Polizia Penitenziaria, tre infermieri e sei medici dell’ospedale Pertini: le condanne solo per i medici, per omicidio colposo, fino a un massimo di due anni per il primario del reparto, pene interamente paralizzate tramite l’applicazione della condizionale. Non un assassinio, ma incuria, trascuratezza professionale, errori, omissioni. Nessun pestaggio. La vita di Stefano valutata 320 mila euro: la provvisionale disposta in via accessoria.
La Corte di Assise di Appello si è ritrovata a maneggiare reati quali abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Ancora alla luce della tesi dei professori milanesi, malgrado le immagini del corpo martoriato di Stefano siano da anni di dominio pubblico, a disposizione di tutti, tragicamente eloquenti. Malgrado la certezza ovunque condivisa che violenza ci sia stata. I giudici dell’appello impiegano meno di tre ore di camera di consiglio per mandare tutti assolti, per rifiutare le richieste di condanna del procuratore generale per tutti gli imputati, per rigettare la richiesta dell’avvocato di parte civile di rinviare gli atti alla procura al fine di accertare chi, quando e dove ebbe a infierire sul corpo di Stefano fino a provocargli quelle gravi lesioni che purtroppo tutti noi abbiamo imparato a riconoscere. Completano il lavoro dei colleghi del primo grado assolvendo perché il fatto non sussiste o per insufficienza di prove: gran bel lavoro di squadra. Di squadraccia, per chi vuole.
C’è un dato tecnico (termine orrendo) che vede vanificata la ricerca della verità da quella perizia d’ufficio del 2012: l’eliminazione del nesso di causalità tra ciò che accadde a Stefano nella camera di sicurezza dei carabinieri, nei sotterranei del palazzaccio e la sua morte in ospedale. Tra la frattura della colonna vertebrale e la “sindrome di inanizione”. Tecnicamente è dinamica processuale diffusa quella di non mettere a valore testimonianze di pregiudicati contro le forze dell’ordine: il teste Samura Yaya sente le urla di Stefano e vede dallo spioncino il pestaggio degli agenti della polizia penitenziaria, ma mai nessun confronto viene disposto, la sua testimonianza affogata tra altre 150.
Ma c’è soprattutto un dato politico. Questa sentenza ancora una volta evidenzia lo Stato quale unico colpevole. Colpevole di utilizzare il potere della magistratura per assolvere sistematicamente i suoi assassini in divisa. Colpevole di mantenere in capo alle sue quattro polizie un salvacondotto giudiziario che periodicamente si trasforma in licenza di uccidere. Colpevole di tutelare una giustizia a due facce e due velocità, a seconda di chi siede sul banco degli imputati. Colpevole di ignorare le quasi 200 intimazioni del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a che nel nostro ordinamento sia introdotto il reato di tortura. Colpevole di assecondare uno spirito di corpo imperniato sull’impunità, l’omertà, il falso, il disprezzo verso deboli, emarginati, fasce sociali in lotta per i propri diritti. Colpevole di sottrarsi alla definizione di regole certe in ordine all’uso della forza e delle armi, in particolare nelle funzioni di ordine pubblico. Della spazzatura che in queste ore inneggia in maniera più o meno farneticante alla decisione della Corte non è il caso di occuparsi: è necessario interrogarsi su quanto questa sentenza ci riguardi. Tutti.