Fonte: IL MANIFESTO
EMANUELE GIORDANA
13.04.2012
Nel dicembre del 2009 la Procura di Perugia archiviò il caso della morte di Aldo Bianzino come decesso per cause «naturali», scartando per sempre l’ipotesi di omicidio. La decisione, cui seguì poi un processo già arrivato a sentenza per omissione di soccorso a una guardia del carcere di Capanne, si basava sui riscontri prodotti da un corposo dossier dei medici incaricati dalla magistratura perugina in cui un fotogramma di materia cerebrale evidenziava in modo chiarissimo un aneurisma: una malformazione dell’apparato vascolare che aveva causato la morte del falegname di Pietralunga, arrestato per possesso di canapa nel 2007 e morto in carcere durante una brevissima detenzione. Ma adesso tutto ritorna in discussione. Semplicemente perché quel fotogramma non riguardava il cervello di Aldo Bianzino ma quello di uno sconosciuto. Materiale d’archivio. Niente di più che letteratura medica.
La vicenda è emersa alla penultima udienza del processo per omissione di soccorso contro Gianluca Cantoro, una guardia carceraria ritenuta responsabile di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d’ufficio, che una recente sentenza all’inizio di marzo ha condannato a un anno e mezzo con pena sospesa. In quella sede però sono riemersi tutti gli elementi che in realtà mettono in dubbio la scelta dell’archiviazione. Terra, il mensile ecologista in edicola da oggi, pubblica i fotogrammi che dovrebbero – come chiede adesso la famiglia Bianzino – far riaprire il caso: uno in particolare (quello riprodotto a fianco e cerchiato in rosso nell’originale), che mostra l’aneurisma… che non c’è. Lontana dai clamori della cronaca di una vicenda che, per la prima volta, ebbe risalto nazionale sulle pagine de il manifesto, ma che di fatto fu seguita soltanto dal Partito radicale e da gruppi autorganizzati della società civile perugina, la storia di Aldo è sempre stata piena di lati oscuri, ignorati proprio per via della famosa malformazione vascolare. Tutta l’ipotesi dell’archiviazione si basava infatti sull’esistenza di un aneurisma che era stato ampiamente documentato dai consulenti del pm Aprile e Lalli in una minuta documentazione del 2008, nella quale si vedono le parti smembrate del cervello di Bianzino accanto a un’altra immagine che mostra la «”malformazione” vascolare aneurismatica origine del sanguinamento», come dice la didascalia. Le due figure venivano proposte in sequenza e messe strettamente in relazione senza che, fino a marzo scorso, si fosse mai sollevato un dubbio – questa volta proposto in udienza dagli avvocati di Bianzino – sul fatto che il fotogramma cerchiato in rosso fosse effettivamente relativo alla massa cerebrale di Aldo. Interrogata in proposito, la stessa Aprile ha spiegato infatti che i medici che avevano redatto il dossier per la Procura non avevano «riscontrato l’aneurisma, ma abbiamo riscontrato dei vasi con delle caratteristiche alterate, che ben si correlano con l’ipotesi di una rottura, diciamo, spontanea». Insomma quella immagine era nulla più che letteratura medica. In altre parole, l’aneurisma per cui Bianzino morì nel suo cervello non c’è. O almeno non è così visibile da poterne fare un fotogramma che non lasci ombra di dubbio.
A questo vanno aggiunti altri lati oscuri. I medici hanno rilevato attorno al fegato di Aldo ben 280 cl di sangue, in una parola un terzo di litro. Quella fuoriuscita di sangue sarebbe dovuta dalla pressione esercitata durante la rianimazione. Ma allora Bianzino era già morto. Oltre ai dubbi già sollevati, anche le spiegazioni tecniche lasciano aperte molte porte. Ancora Aprile davanti al giudice: «Arresto cardiaco o non arresto cardiaco, lesione in vita o lesione in morte, l’immagine che si deve avere rispetto a questa azione di compressione a livello locale è quella di una spugna. Il fegato è pieno di sangue». Anche il magistrato ha un momento di apparente perplessità: «Sì ecco, riguardo a questo punto, però, la manovra rianimatoria ha come punto di riferimento il cuore, ecco, più che il fegato», commenta in aula. La perplessità rimane a tutti. Possibile che due esperti rianimatori, pur eccitati dal desiderio di salvare un uomo (già morto), gli facciano a pezzi il fegato tanto da far uscire poco meno di mezzo litro di sangue? La rianimazione (sul cuore) durò almeno venti minuti. E qui sta l’altro punto debole. Non ve n’è traccia. Il carcere ha ovviamente un sistema di telesorveglianza. Non riprende in maniera continuativa; lo fa a spezzoni. Ma sicuramente non a intervalli di venti minuti, altrimenti il carcere di Capanne sarebbe un colabrodo di evasioni o atti illegali consumati al riparo di occhi indiscreti. Eppure, tra tutte le immagini acquisite di quella maledetta notte, non vi è un solo fotogramma in cui appaia Bianzino nel corridoio dove si cercò di rianimarlo.
Bianzino era entrato in prigione venerdì 12 ottobre in condizioni fisiche normali. Ma la mattina di domenica 14 viene rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta e, sebbene sia ottobre inoltrato, Aldo indossa solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. La notte si è lamentato ma solo al mattino viene trasportato fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti non vedano. Un medico dirà di non riuscire a spiegarsi per quale motivo sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell’infermeria ancora chiusa poiché, in altri casi, l’intervento del soccorritore – com’è logico – avviene direttamente in cella. Si tenta dunque la rianimazione effettuando il massaggio cardiaco: uno dei punti – l’abbiamo già rilevato – più oscuri dell’intera vicenda. Le indagini dopo la sua morte riveleranno subito che si riscontrano «lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica». L’inchiesta però esclude proprio quell’emorragia traumatica e sposa la tesi dell’aneurisma, aprendo solo un procedimento nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. Del resto, se Aldo è morto per lo scoppio di un aneurisma cerebrale, si esclude automaticamente l’omicidio. Resta quel fegato “strappato” dalla sede naturale sul quale la letteratura medica è avarissima di casi in cui ciò possa essere avvenuto a seguito di un massaggio cardiaco. Si archivia. Ma ecco che nel recente processo alla guardia, nell’udienza del 16 gennaio scorso, emergono elementi nuovi. Che dovrebbero indurre un ripensamento. Può darsi infatti che quando chiede la riapertura del caso, il padre di Aldo – Giuseppe Bianzino – sia un uomo ottenebrato dal dolore, che vede nero dov’è bianco e che ingrandisce o diminuisce a suo piacere. Ma i fatti sono fatti. Sia quando ci sono, come il sangue fuoriuscito, sia quando non ci sono (l’aneurisma o i fotogrammi del carcere). Quello che c’è in abbondanza sono gli elementi per cui quel caso dovrebbe uscire dalla casella “archiviato” dove è stato, forse troppo rapidamente, riposto.
* Direttore di Terra