FRANCO CORLEONE, FORUM DROGHE
Se per l’Unodc si adottassero le regole di una qualunque azienda pubblica o privata, nel 2008 verrebbe dichiarato il fallimento e gli amministratori sarebbero liquidati e mandati a casa. Le Convenzioni internazionali sulle droghe diverrebbero dei reperti archeologici da esaminare come gli incunaboli del XV secolo.
La strategia proibizionista lanciata durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York nel 1998 con l’ambizioso slogan “Un mondo senza droga, possiamo farcela” era destinata alla sconfitta perché impossibile oltre che sbagliata e dannosa. Ma serviva per ridare fiato alla mission della lotta del Bene contro il Male, per continuare a ingannare gli ingenui e le anime belle. La verità è che i guerrieri della (anti)droga sanno di non poter vincere la guerra (preventiva) che hanno unilateralmente dichiarato, ma vogliono prolungarla all’infinito per lucrare in termini di potere e di risorse ingenti. La narcoburocrazia cinicamente vive sulla struttura creata in nome della salvezza dei tossicodipendenti e su un apparato di repressione dei contadini nel sud del mondo e dei consumatori nel mondo occidentale.
La macchina militare aggredisce l’ambiente e l’economia delle società del sud america e del terzo mondo. L’apparato giudiziario distribuisce centinaia di migliaia di anni di pena riempiendo le carceri di giovani innocenti, colpevoli solo di un reato senza vittima.
Se le cose stanno così, dobbiamo interrogarci perché le nostre proposte, sensate e ragionevoli non prevalgano e risultino ancora minoritarie. La forza del proibizionismo è di parlare non al cervello ma alla pancia delle persone, di solleticare l’insicurezza e la paura del diverso e dell’ignoto: il timore oscuro di essere posseduti dal demonio attarverso una sostanza incontrollabile. Siamo in presenza di un mix di ignoranza e di retorica al servizio di interessi inconfessabili. Il nostro limite è di essere stati per troppo tempo sulla difensiva. Ora è tempo di dire, alto e forte, che i taleban di casa nostra, gli integralisti e i fondamentalisti sono, loro, gli alleati della mafia criminale.
Se fossimo giocatori di scacchi, sarebbe il momento di fare la mossa del cavallo, in altri termini dovremmo far saltare il banco o meglio imporre regole nuove creando l’egemonia di un linguaggio diverso, attraverso un lessico, una grammatica, una sintassi dei comportamenti propri di uno stato laico, non di uno stato etico.
Nel 1998 fu pubblicato sul New York Times un Appello internazionale per contestare il Piano Arlacchi: le firme assai autorevoli di tutto il mondo di uomini di governo, di scienziati, di uomini di cultura non furono sufficienti a smontare la costruzione di specchi ingannevoli del Palazzo di Vetro.
Antonio Costa, il piccolo zar antidroga, nel 2003 a Vienna rinviava il raggiungimento degli obiettivi ambiziosi della eradicazione completa della coltivazione di coca, oppio e canapa e della riduzione della domanda fino all’astinenza, al mitico 2008.
Si è però reso conto che sarebbe stato difficile reggere le contestazioni e la resa dei conti, così recentemente, con una tipica furbizia contadina, ha iniziato a delineare una diversa strategia, all’apparenza meno arrogante e più incline al dialogo.
Che cosa sostiene ora l’ineffabile Costa in una intervista a un quotidiano italiano? Che esistono le sostanze buone e quelle cattive: quindi, sì alla coca, no alla cocaina; sì al papavero da oppio e no all’eroina; sì alla foglia di canapa e no all’hashish.
Addirittura il capo dell’Agenzia Onu sulle droghe spaccia un progetto comune con il presidente boliviano Morales per la solita ricetta della divisione dei compiti: ai paesi produttori il compito di controllare l’offerta, ai paesi consumatori il compito di ridurre la domanda.
Arriva anche ad approvare le proposte di uso terapeutico della canapa purchè attraverso preparati farmaceutici. Siamo di fatto di fronte all’ennesimo paradosso: fino ad ora le droghe erano vietate perché facevano male, ora si promette la tolleranza per quelle che farebbero bene ai malati. In ogni caso sarebbero comunque perseguitati coloro che le userebbero per pura depravazione.
Si tratta evidentemente di una manovra per gettare polvere negli occhi del movimento, se non addirittura per tentare di dividerlo.
Ma noi non possiamo cadere in questa trappola perchè ricordiamo bene le nefandezze compiute da Costa. Ricordiamo gli insulti rivolti al Parlamento Europeo in occasione dell’approvazione della Raccomandazione Catania per una revisione delle politiche dominate dal pensiero unico imposto al mondo dagli Stati Uniti. Ricordiamo bene che tre anni fa in occasione del tradizionale meeting di San Patrignano, la comunità di Muccioli, propose il test dei liquidi (sangue, sudore, saliva) per tutti gli studenti delle scuole italiane. Ricordiamo la sudditanza agli Usa manifestata con la lettera all’amico Bob (si trattava di Robert Charles, responsabile per gli affari internazionali sulle droghe ) contro la politica di riduzione del danno. Ricordiamo la sottrazione del documento dell’Oms sulla canapa e sulla proposta di declassificazione.
Infine perché ricordiamo – e questo vale soprattutto per noi italiani- il sostegno alla svolta proibizionista attuata dal Governo Berlusconi-Fini con la criminalizzazione del possesso di canapa oltre i 500 milligrammi di principio attivo con pene da sei a venti anni di carcere.
Antonio Costa si sente sicuro per l’intangibilità delle Convenzioni che sono difficilmente modificabili, come se fossero le Tavole di Mosè, perchè il procedimento di revisione è fatto apposta per impedire adeguamenti e si rivela profondamente antidemocratico, ma l’esperienza ci conferma che si tratta di un’arma spuntata.
Il mito che la presenza delle Convenzioni internazionali sulle droghe impedirebbe la scelta di autonome decisioni degli Stati, deve essere sfatato una volta per tutte. La forza delle convenzioni risiede nel valore simbolico, più “morale” che giuridico.
Infatti, le convenzioni internazionali in genere danno luogo a letture diverse se non contraddittorie a causa della genericità delle dichiarazioni che contengono, a conferma che il loro scopo è soprattutto quello di affermare e ribadire una cornice di valori. La traduzione in diritto positivo è cosa ben più complessa, tanto è vero che la stessa convenzione del 1988 che decreta, al paragrafo 2 dell’art. 3, che il consumo personale debba essere stabilito come un reato penale, specifica che questo dettato “è subordinato ai principi costituzionali e ai concetti basilari del sistema legale vigente negli stati”. Sul piano del diritto e della politica è molto istruttivo il caso dell’Italia: nel 1993 la Corte Costituzionale ammise al giudizio popolare, non ritenendolo in contrasto con un patto internazionale, il referendum poi approvato dai cittadini sulla depenalizzazione della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti, tutte, leggere o pesanti.
Ricordo che nel 1999 l’Incb fece visita al Ministero della Giustizia per contestare le scelte dell’Italia. Allora io ero sottosegretario e i funzionari del ministero replicarono duramente a quella sorta di polizia internazionale in nome dell’autonomia dello stato italiano. I gendarmi, espressione di un organismo che si spaccia di una qualifica scientifica, se ne andarono con la coda fra le gambe, non avendo alcun potere di applicare sanzioni. Proprio questo è il punto: le eventuali scelte di un paese in contrasto con la lettera delle Convenzioni internazionali costituirebbero una implicita denunzia della sottoscrizione e non avrebbero alcuna conseguenza pratica.
Forse sta per giungere il momento in cui un paese, come nella favola del bambino ingenuo e senza pregiudizi, gridi che il re è nudo. In quel momento un applauso liberatore farà cadere la costruzione ideologica del proibizionismo come un castello di carte. La fine del secolo scorso ha visto cadere muri e imperi ben più solidi, questo inizio secolo può avere la speranza che le menzogne di imbroglioni come Harry J. Anslinger si sciolgano come neve al sole.
Quando parliamo dell’Europa e del suo possibile ruolo a che cosa pensiamo esattamente? Alle istituzioni come il Consiglio o la Commissione o al Parlamento o alla cultura che la vecchia Europa rappresenta?
Io penso che l’Europa intesa come Unione Europea attraversi una fase di grande difficoltà e debolezza che durerà ancora a lungo, almeno fino alla ridefinizione di un patto costituzionale e a una rinegoziazione del rapporto con gli Stati Uniti. Perciò penso che la strategia delineata dal Parlamento europeo nel dicembre 2004 costituisca un punto alto e irrinunciabile. Nelle condizioni politiche attuali con differenti e contrastanti posizioni dei paesi membri, il tentativo di rafforzare una politica unitaria dell’Unione, comporterebbe il rischio di arretramenti, di mediazioni al ribasso e di limitazioni alle sperimentazioni di politiche più avanzate e di cambi nella legislazione per la depenalizzazione del consumo e per la legalizzazione.
L’Europa dovrebbe scegliere un percorso intelligente, rispettoso delle differenze culturali e delle sensibilità dei diversi paesi. L’Europa in vista del 2008 dovrebbe pretendere che sia esaltata la possibilità di espressione dei diversi orientamenti legati alla maturità e alle esperienze delle città e delle società civili nazionali, abbandonando la tentazione e la pretesa centralistica e autoritaria che finora ha dominato le sedi dell’Onu. La bandiera dell’Europa deve essere il rifiuto del dogmatismo.
Il problema che rimane aperto è quello di trovare alleanze al di fuori dei paesi sviluppati. La war on drugs ha un sistema di alleanze che vede insieme paesi ricchi e paesi del terzo mondo, democrazie e dittature. Ora dobbiamo respingere la provocazione di chi osa proporre una santa alleanza contro il vizio tra i carnefici e le vittime. L’Europa della ragione e del diritto deve consolidare il legame con i paesi produttori per combattere insieme la violenza di una ideologia prevaricatrice.
Le forze che contestano la globalizzazione finora non hanno compreso il ruolo che la droga gioca nella geopolitica e le ripercussioni che determina in termini di controllo economico e sociale per i paesi non sviluppati e di ricaduta sui diritti e le libertà, sia nei paesi poveri che in quelli sviluppati. Nel 2003 a Vienna per la prima volta alcuni paesi si sottrassero al clima tradizionale di unanimismo della retorica e del moralismo, rivendicando la bontà e la legittimità di scelte autonome nel campo della riduzione del danno. Ma questa uscita allo scoperto si è espressa con prudenza perché ancora funziona il ricatto per cui se un paese contesta il modello della repressione, viene accusato di sostenere il narcotraffico e di voler incentivare il consumo di sostanze tra i giovani. Le parole più esplicite furono quelle dell’ambasciatore del Canada che ricordando che nel 2008 saranno passati cento anni dalla Conferenza di Shangai che introdusse il sistema di controllo sulle droghe, disse: ”A quella data i paesi avranno l’opportunità di verificare se questo regime di controlli e proibizione, che si è esercitato a livello nazionale e internazionale per un secolo, sia ancora valido e utile”.
Che cosa deve fare dunque il Movimento? Io penso che occorra convocare un Tavolo di confronto di tutte le organizzazioni internazionali che si occupano di droghe per verificare la possibilità di costruire una piattaforma comune di denuncia del fallimento della war on drugs e di proposta di una politica alternativa. Il testo del Manifesto andrebbe pubblicato lo stesso giorno sul giornale più importante di ogni paese a cura delle organizzazioni locali.
Si dovrebbe lavorare fin d’ora per un vertice vero, non quello di cartapesta dell’Unodc, con la partecipazione di ministri, parlamentari, sindaci, premi Nobel, scienziati, medici, scrittori, consumatori, economisti, sindacalisti, artisti, per pensare globalmente e agire localmente, dichiarando l’illegittimità dell’Agenzia proibizionista e il superamento delle convenzioni che sono da considerare carta straccia: una Lega dei popoli per la ragione, una Associazione che sposti l’accento dal Penale al Sociale si deve mettere in marcia.
Il Movimento infine non deve farsi rinchiudere in un recinto, in un ghetto, per reclamare la propria libertà, ma deve avere la forza di rivendicare la libertà di tutti e una capacità di governo dei fenomeni sociali attraverso politiche di inclusione e di welfare.
In Italia nel 2007 porremo nell’agenda della politica il cambiamento della legge fascista approvata con un colpo di mano alla vigilia della morte del governo Berlusconi. Con forza chiederemo al governo italiano di segnare una profonda discontinuità nelle sedi internazionali, a partire da quelle europee, rispetto ai cinque anni passati. Soprattutto esigeremo che i ministri Ferrero, Turco, D’Alema e Bonino non diano copertura all’azione di Antonio Costa ma che anzi pongano pubblicamente in discussione la sua permanenza a capo dell’Agenzia dell’Onu e infine ci impegneremo per far divenire centrale, in occasione del dibattito in Parlamento sul finanziamento della missione delle truppe italiane in Afghanistan, la proposta di una diversa iniziativa sull’oppio sulla scia del progetto del Senlis Council.
Oggi negli Stati Uniti si vota per le elezioni di middle term e ci auguriamo tutti la sconfitta del partito di Bush, ma questo è il primo appuntamento di una serie di confronti che potrebbero cambiare il quadro politico in Europa. Infatti sono in calendario le elezioni in Olanda, in Francia, un cambio in Gran Bretagna e nel 2009 le elezioni del Parlamento Europeo.
Chissà che prima o poi non emerga uno Zapatero laico che sconfigga l’ipocrisia e affermi sulle droghe una politica fondata sui diritti e la ragione!
Non può essere solo un sogno.
Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel Governo italiano (1996-2001)